Quando Rita mi dà da leggere il suo romanzo, le rispondo con aria di sfida: “Attenta! Ho appena finito di rileggere Anna Karenina!”
E in effetti sono ancora sotto l’incanto degli innumerevoli ritratti psicologici che il genio di Tolstoj forgia con maestria e straordinaria capacità di ascolto e comprensione.
Rita però – e chi la conosce lo sa – è la maga dell’iperbole e della provocazione creativa e la mia prossimità con Tolstoj le fa un baffo: mi manda il file del manoscritto e mi dà sette giorni per scriverle una recensione.
Ho sgarrato di due giorni e per l’ennesima volta ne ha avuto ragione lei, nonostante Tolstoj.
Lasciando in buona pace nelle sue vette il genio russo, resta il fatto che il fine, a cui chi scrive generalmente tende, è quello di catapultarci in una moltitudine di modi diversi di sentire, di vivere, di interpretare la realtà.
Leggere o ascoltare Rita, invece, significa lasciarsi assorbire da un vortice che ruota in senso esattamente opposto e che fagocita il lettore nelle spire caleidoscopiche della sensibilità dell’Autrice: unica, dominante, soggettiva. Ed il bello è che quel vortice, che ti trascina dentro la peculiare spiritualità di Rita, legge gli eventi della vita in maniera non meno coinvolgente e ricca.
Governato da un punto di vista prepotentemente soggettivo ed esclusivo, prende dunque forma in questo libro la figura di Massimo, il protagonista, l’innamorato, colui che sa dare e sa ricevere amore e che soprattutto sa trasformare in atto di amore il tempo presente, l’unico che Massimo accetta di prendere in considerazione, dando “massimo” valore ad ogni istante vissuto.
Massimo, che esercita un fascino travolgente ed ipnotico su chiunque lo avvicini, nonostante il suo handicap fisico. Massimo, che un po’ ti respinge e molto ti innamora per quella sua capacità di essere vero e di leggere quanto di autentico c’è negli altri.
E poi Massimo e la protagonista, che si innamorano, ma non per vivere una relazione come chiunque, ma per aprirsi ad altro amore, che si espande e si sublima come sanno fare i santi e i martiri. E infine Massimo, che come un santo o un martire muore, offrendo la propria vita in uno slancio di generosità che dura un attimo: un attimo di presente da non lasciarsi sfuggire, da vivere ancora una volta fino in fondo, fino a morirne, senza quasi rendersene conto.
La prima parte della storia è ambientata nella Bologna universitaria degli anni ’60, vivace, goliardica, eppure non estranea all’impegno civico in cui Massimo e la sua compagnia si immergono con generosità ed entusiasmo. Un mondo studentesco che trasforma chi lo vive in pienezza, ma che spiazza chi vi si immerge occasionalmente, come la protagonista.
L’incontro delle due anime non è però nella storia ordinaria e quotidiana, ma è in una dimensione spirituale trascendente, in cui entrambi i protagonisti vivono all’unisono e dove non possono non riconoscersi e trovarsi. Questa chiave spirituale di lettura è quella necessaria per intendere la seconda parte del libro, dove l’Autrice ci sfida a seguirla nell’iperbole che riconosce i mille segni di presenza che Massimo ed il suo amore (dato e ricevuto) lasciano nello scorrere quotidiano della vita, nonostante la sua morte, nonostante razionalità e buonsenso.
Massimo è nella coincidenza di una data, nell’immagine di un ragazzo disteso sulla spiaggia, nel nome sorprendente di un bimbo, nello sguardo profondo di una bimba. Massimo è ovunque e sempre, purché si abbiano cuore e occhi per trovarlo e il non vederlo è quanto di più grave ci si possa perdere nella vita.
Massimo è un amore perduto, è l’assoluto cercato, è il consolatore invocato ed è quant’altro l’uomo insegue nello spazio stretto tra la vita e la morte, l’unico che gli è concesso.
Massimo è l’ardire di credere che la presenza del trascendente nei nostri giorni sia scritta da segni (in)significanti ed evidenti come le note per chi suona, come l’alfabeto per chi scrive: possono restare tratti sulla carta o possono essere vette di melodia e poesia. Basta solo saperli leggere.
E così l’iperbole “à la Rita” prende il volo, si innalza e stordisce.
Puoi non crederci, puoi diffidarne, puoi persino beffartene, ma un interrogativo ti resta nel cuore e ti tormenta: “…e se fosse così?”.
Lo stile è bello e la lingua ricca, impreziosita da versi da leggere ad alta voce e nel silenzio.
Eleonora Mancini